lunedì 20 maggio 2013

Erri De Luca





FLA'
 
Erri de Luca (Napoli, 1950)
“Tu, mio” 1998


Finalmente un autore conterraneo. Ammetto di essere positivamente disposta nel cominciare a leggere un libro ambientato in luoghi che conosco. Mi sembra di non aver mai compreso appieno nessuno dei luoghi in cui ho vissuto. Ne sono stata parte senza avere mai avuto una visione di insieme. Leggere di questi luoghi mi fa sperare di aggiungere dei pezzi lì dove ci sono spazi vuoti nel quadro.
Vediamo dunque quale spazio ha colmato De Luca.

Sebbene la storia del libro si svolga ad Ischia poco prima della dolce vita degli anni ’60, le memorie del mondo degli adulti che circondano il sedicenne protagonista e quelle la sua sovrannaturale esperienza, fanno della seconda guerra mondiale una seconda ambientazione, ingombrante, la cui ombra supera il sole della presente estate ischitana.
 La lettura non mi ha attanagliata, soprattutto all’inizio, dove l’introduzione del protagonista adolescente che matura durante l’estate restando a contatto con gente più adulta e scegliendo come mentore un vecchio pescatore, era un po’ troppo lontano dalla mia dimensione.
 Le descrizioni delle difficoltà della vita marittima mi hanno riportato alla mente quelle de “Il vecchio e il mare”, e quindi incorrere di elementi paranormali, nel corso dell’opera, è stata davvero una sorpresa.
 Le parti che più ho apprezzato sono quelle che dipingono piccoli episodi delle scene dei bombardamenti su Napoli. L’attenzione del lettore viene distolta dai pericoli delle bombe verso piccoli particolari che rivelano la natura dell’animo umano. Nella mia mente si costruivano scene da film di Vittorio De Sica, capaci di strappare un sorriso, a volte amaro, anche nelle situazioni più tragiche.
 Un secondo set è ambientato in Iugoslavia, al momento della guerra in cui gli italiani erano alleati dei tedeschi e quindi complici-carnefici.
Le generazioni dei giovani fungono da anello di congiunzione tra passato e presente. I vittime e oppressori si trovano sull’isola come turisti, ma da ambo le parti nulla è stato dimenticato.
Il giovane protagonista del libro rivive tutto questo – sia i ricordi di Napoli, che quelli della Iugoslavia – attraverso due intermediazioni: quella dei racconti degli adulti, da lui inquisitoriamente interrogati, e quella dei gesti che lo spirito che lo “possiede” gli costringe a fare.
Lo spirito è quello di una vittima dei nazisti che, poco a poco, si rende manifesto nel corpo del giovane, e riesce a far sentire alla figlia, amica del ragazzo, ancora una volta la sua presenza.
Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta sembra seguire un destino ineluttabile, che poco spazio lascia al ragazzino protagonista, giovane e vecchio al tempo stesso, desideroso di capire quali sono le sue origini e cosa accadrà oltre quell’estate.
 Lo stile in cui il libro è scritto tende a ricalcare le caratteristiche del parlato e ci sono periodi in dialetto che ne confermano l’autenticità. I ricordi riportati sono quelli dello stesso De Luca, della sua giovinezza trascorsa a Napoli e quelli dell’esperienza di una guerra in Iugoslavia, trasposta a 50 anni di distanza.

Se mi chiedo quale spazio abbia colmato nel quadro questo libro, potrei dire che ha più che altro levato da vecchie immagini la patina di polvere che la mia memoria aveva lasciato si posasse.
 

Citazioni:

“(Nicola in Iugoslavia) aveva visto un cimitero mussulmano: "come il nostro, ma sulla pietra al posto della croce ci stava la luna". Aveva sentito piangere un lutto con gli stessi acuti delle donne dell'isola, si era sentito a casa. “


 “Entrarono gli americani e ogni famiglia ne adottò uno. Da noi c’era Jim, un negro gigantesco, allegro e buon lavoratore. E fu Jim a salvarci. […]Al suono della sirena dei bombardamenti nessuno voleva muoversi. Jim era in casa e non volle sentire storie, “no, no“ gridava col suo vocione buttando tutti fuori di casa e prendendo in braccio la nonna di mamma che era sulla sedia a rotelle e, rapita dal colosso, gridava aiuto”

“Nei ricoveri, le donne scappavano mettendo le cose preziose in una borsa e non se ne separavano mai.
La mamma si ricordava di una famiglia assai povera: la donna stringeva al petto sempre una vecchia borsa. I suoi figli si stupivano che lei possedesse qualcosa di valore. Un giorno nella corsa la donna cadde e rovesciò per terra il tesoro: bottoni. Per non sfigurare, anche lei si era dotata di borsa inseparabile riempendola per fare volume. Anche sotto le bombe una donna povera non voleva essere da meno delle altre. Da allora, non la videro più.”

Nicola il pescatore: “Io non capisco neanche il mare. Non so perché la barca galleggia, perché il vento della tempesta fa le onde a mare e polvere a terra. Vivo al mare da quando sono nato, e non lo capisco.”

“Cercare risposte dagli altri è come calzarsi al piede la scarpa d’altri, che le risposte uno se le deve dare da sé, su misura. Quelle degli altri sono scarpe scomode”

“Io sono stato in un posto dove i nemici eravamo noi. Nemici di una gente che non ci aveva fatto niente. Mi mettevo scuorno”

“Zio mi diceva che i nemici erano scomodi, pretendevano troppa attenzione e sentimento”

“mi sembra che tu voglia intervenire sul passato per correggerlo[…]è già molto proteggere il presente dagli sbagli, non far un male da poter riparare”

“In momenti difficili non fare niente di male è diventare complici del male”



CHIARA



Erri De Luca
C’è stato un tempo in cui di De Luca mi nutrivo. Era un tempo in cui la meraviglia della poesia si insinuava dovunque, nella mia vita di innamorata. Sedotta, dalla poesia appunto.
E quale cibo migliore, delle pagine di questo autore.
Le sue parole, frasi, che si ripiegano su se stesse per mettere a fuoco, rivelarne, il centro, il cuore. E quel cuore è ancora un’altra parola, di italiano, di napoletano, a volte, che viene caricata di un significato in più. Ecco, lui, come un buon fornaio (e la similitudine non è a caso), prende la sua parola e la farcisce, scava tra la mollica e ne riempie il mezzo di un ripieno morbido, a volte nostalgico, e poi la lascia lievitare, tra le pagine e gli occhi di chi legge.
Così ti succede di incrociare tra le righe un pensiero che è anche il tuo e un sentimento che è anche il tuo, o lo è stato, e ti chiedi come mai non sei riuscito anche tu a esprimerlo in quel modo, bello. Che ti stupisce.
Perché è la bellezza che ti colpisce, leggendo De Luca, che ti stupisce, la bellezza del linguaggio. E della vita, delle esperienze, dei ricordi, dell’infanzia. E della Bibbia. Il racconto per eccellenza, che De Luca ogni mattina all’alba scruta in ebraico, traducendo versetto dopo versetto.
Nascono da qui libri come In nome della madre, un libretto delicatissimo che parla di una fanciulla, Miriàm, che ha saputo amare di un amore struggente, lottando per esso, intimorita da un futuro che le era stato assegnato, prima di diventare quella “Ave Maria” che tutto il mondo stringe tra le labbra, con o senza fede, nel bene o nel male, tra suppliche e imprecazioni.
Anche questo è De Luca, e lo consiglio.
Quando lo incontrai, proprio lui, seppe affascinarmi anche la sua persona, non solo le sue parole: eravamo in una piccolissima libreria sotto i portici bolognesi, lui coi suoi sandali da scalatore di montagne, che si levò, restando a piedi scalzi sul legno del parquet, io vestita a fiori con il mio libretto in mano, per lui. I ruoli invertiti, stavolta.
Perché fu da lui che io iniziai a scrivere, da quel suo “Aceto, arcobaleno” che mi fu prestato con le pagine consunte. Iniziai a scrivere, sempre meno parole, sempre più spazi, bianchi. Poesia, appunto.Fino a quando la realtà non ha saputo riempire quegli spazi, con i suoi colori.


Forse che sì e forse che no
- divagazioni testuali-

Che Winnie Puh sia
un maestro Zen
ho qualche dubbio.

Lo vedo lì
statuario nelle proprie certezze,
invidiabile e
autonoma essenza di vita,
il maestro zen.
Non Puh, che già nel nome…
e che anche quando
è solo non lo è mai, in fondo.
Prendi Porcelletto, Isaia, Christopher Robin, le Api, Kan e Guro e Gufo,
richiudili in un barattolo di miele,
dallo in mano a Puh e…
avrai un maestro zen!

Insomma, se
Winnie Puh è un maestro zen,
Dylan Dog è il dalai lama
in persona,
Mowgli il piccolo Budda
e il Piccolo Principe l’incarnazione di Cristo
(in visita tra le miserie umane)
passando per Pippo e Spiderman e…

…“E poi basta, non bisogna far sfoggio di storie!”

come dice un mio amico
che per sapere da dove venivano
le sue canzoni bastava dare
un’occhiata in giro
“una passeggiata nei dintorni di se stessi
era l’avventura più terribile che
potesse capitare a chiunque”

Lui,
che era solo uno dei tanti da spremere,
da prendere per idiota,
e forse lo era davvero, sì, un idiota stanco.


Io, invece,
dilettante gioioso, superficiale
e instabile (e instancabile)
“Questa loquace timidezza lo portava quindi
alle peggiori goffaggini,
a imprudenze di falena intorno al lume…”


Mi ricordo una poesia che
non riesco a ricordare,
una canzone che non è mai esistita
e un posto in cui non devo essere mai stato.

Come una lettera morta
mai giunta a destinazione.


Io,
ogni giorno scelgo la verità
con la quale intendo vivere.
 “dietro quegli occhi sereni si svolgeva
un festino di demoni…”


Cerco di essere pratica efficiente professionale.
Ma vorrei poter scegliere, sempre,
il desiderio come compagno…
…perché è bello.


La terra ha desiderio di altezza,
di cielo.
Spinge i continenti all’urto per innalzare creste…
E se è fatta deserto, fa polvere per salire.
La polvere è una vela, migra, scavalca mare.
Lo scirocco la porta dall’Africa,
ruba spezie ai mercati
e ci condisce la pioggia. *
(* Erri De Luca , “Tre cavalli”)

Io,
“…stupido Orso di Zero Cervello!”

non so niente di troppe cose
per tenerne conto, però
a volte
affiora un’ignoranza che mi dà
nostalgia.
“Tutto perché, immagino, tutto perché
mi piace tanto il miele.”

Mi ricordo,
ma poi quando cerco di ricordarmi
mi dimentico.
“E’ per questo che gli piace
sentirla di nuovo – la storia,
questa storia -,
perché così diventa una storia vera
e non solo un
ricordo.”

A proposito di Poesia:
hai mai notato quell’albero laggiù ?
                                                                                                                            “Può darsi.” E poi?

“E poi basta, non bisogna far sfoggio di storie”.

A Efraim Medina Reyes, Erri De Luca, Paulo, Coelho
Raymond  Carver e , ovviamente,
Winnie Puh.




Ci ho riflettuto.

Che non è, per me
questione di ruoli
                  ma di posti:
io voglio starti
                  accanto.

E imparo, intanto
il tempo della distanza
la strada della pacienza
                  - quella che mette un po’
                    di pace nell’attesa paziente - *

Standomene qui
mentre lì, nel tuo
                   silenzio
si gioca, sento
anche qualcosa
                   di me.

Standomene qui
seduta come chi
attende
sulla riva del fiume
senza affacciarsi
sullo specchio dell’acqua
per non prestare
neppure
per l’attimo
di un riflesso
il proprio
             volto
a quel cadavere
                   nemico

trascinato via dalla
corrente.


                                               (10 agosto duemilasette)                                                                 * Erri De Luca, “Tu, mio”



Stralci da “Pocomeno”, C. Galignano
 





Andrea De Carlo



FLA'


 Andrea De Carlo (Milano, 1952)


"Giro Di Vento", pubblicato nel 2004


Ed ecco De Carlo, secondo autore scelto dal Circoletto. Mai letto nulla scritto da lui, ho condotto pertanto una breve ricerca su internet che mi presentasse la persona e il libro che avrei aperto a breve, Giro Di Vento, pubblicato nel 2004.

Ho trovato in rete che è disponibile una versione del romanzo con musiche composte dallo stesso De Carlo per accompagnare la lettura.  E’ una bella idea, mi spiace non averle ascoltate, le ho cercate senza fortuna su Youtube, incappando invece in alcune sue interviste….ed udendo la voce dell’autore, sono rabbrividita per il suo accento milanese ed i connotati per nulla positivi ad esso legati. Ho cercato di mettere da parte i pregiudizi e aprire serena le pagine scritte da una persona che comunque sfoggia, nelle sue esperienze di vita, nomi importati, da Calvino a Fellini.

Ciascuno scrive di quello che conosce meglio: è l’ambiente della moderna borghesia rampante milanese  che viene descritto  nel libro.
Quattro professionisti, amici dai tempi del liceo, sono intenzionati a comprare dei casolari in Umbria (è anche qui De Carlo attinge dalla sua esperienza personale) per trascorrere i loro  w-e lontani dall’insopportabile stress della loro vita cittadina.
Ammetto che ho fatto fatica a identificare “chi fosse chi” nei primi capitoli. Sebbene i personaggi siano al massimo una decina, non emergono protagonisti e tutti hanno all’incirca pari spazio nel libro. Non ricevono un’ introduzione che lasci il segno. Diventano quasi un amalgama indistinto che nel corso della vicenda man mano si scioglie per scivolare in diversi rigagnoli.
Per quanto riguarda lo stile, descrizioni da parte di un narratore esterno introducono dialoghi diretti, avviati sempre dallo stesso scarno verbo: “dice”. Ogni capitolo rivela il punto di vista di uno degli attori, si alternano dimensioni drammatiche e grottesche. I nevrotici personaggi sono antipatici e scialbi, abbastanza stereotipati, non ne emerge nessuno. Insomma, nel libro non c’è nulla di accattivante. I primi capitoli mettono il lettore alla prova e non lasciano molta voglia di continuare.
Se il lettore resiste, può riuscire a raggiungere dei passi di riflessione che – pur non essendo un professionista di successo – riesce a condividere senza sforzo.
Nella parte centrale del libro, la favola bella della rilassante vita nella natura, lontani dalla nevrotica civiltà, perde l’aura idilliaca per rivelare agli uomini che in realtà non sono capaci di vivere senza le loro quotidiane torture, che ne esistono altre, magari più in armonia con l’ambiente, ma che non sono fatte per loro.
Questi animali da città, che hanno tatuate nell’animo di lavoratori parole come flessibilità, dinamismo, ottica di evoluzione e di accrescimento, non  sono capaci ad adattarsi ad una condizione nuova.
I personaggi che occupano il casolare che doveva essere il loro ultimo capriccio borghese, hanno portato al parossismo delle loro velleità di distacco dalla vita urbana.
I ruderi sono stati trasformati in una comune, del tutto autonoma e indipendente dalla “civiltà”. Ma anche qui l’idillio non esiste. I due gruppi di persone, completamente antitetici, sono costretti a convivere,  e nella coabitazione vedono i propri difetti riflessi  gli uni negli occhi degli altri. Le loro convinzioni personali e le loro scelte, vengono messe in discussione, non solo nel gruppo dei topi di città, ma anche in quello dei tipi di campagna. E’ uno scontro di civiltà,  la dimensione sofisticata dei consumatori contro quella  “green” di chi ha deciso di vivere limitando al minimo l’impronta dell’uomo sulla natura. Ad uscirne sconfitti non saranno solo i rappresentanti del successo all’ ”occidentale”, tra i quali anche i millantati sentimenti di amore e amicizia si scoprono alla fine vacui, ma anche gli alternativi, tra i cui membri ci sarà che rivelerà infine la noia del trascorrere una vita ligia ai principi ma non del tutto soddisfacente. L’ansia di conoscere qualcosa di diverso sottende, in quell’Arcadia, l’animo degli adulti ed è manifesto in quello dei giovanissimi. Solo l’anziano, che tra i personaggi è quello che meno “dice”, sembra essersi incastonato perfettamente nel paesaggio naturale.
Pe i milanesi in carriera, per i quali il peccato più grave è “perdere tempo”, non può esistere tortura peggiore di vivere in un luogo in cui il tempo si è fermato.
Ed è in questo in fondo che qualsiasi lettore può riconoscersi: come sarebbe la vita senza i mezzi di comunicazione con cui abbiamo deciso di riempirla, senza l’affanno di essere perennemente collegati col mondo, sia con quello personale, fatto di piccole sfere - amici, conoscenti e parenti - che quello più grande della storia in cui viviamo?
 E d’altro canto, come sarebbe la vita se perseguissimo le convinzione di ambientalismo a volte ottuso, a volte fanatico, a volte moda da seguire? 
In entrambi in casi, quale sarebbe l’obiettivo finale?
Nessuna delle due domande offre risposte sicure e certezze obiettive. Si può solo tentare. Come i personaggi del libro.




“I successi hanno molto padri ma i fallimenti sono orfani”

“(Alessio) ha una specie di crisi di astinenza da telecomando:bisogno di riempirsi gli occhi e le orecchie di segnali simultanei cui attingere per non rischiare di restare bloccato in un solo pensiero fino ad esserne risucchiato”

“(questo) è un mondo dove senza possedere le cose o sognare di possederle, il senso della vita ti svanisce davanti agli occhi”
  

«Per esempio a cosa dovresti rinunciare?
(…) Ad andare al lavoro di mattina nella mia macchina verde in mezzo al traffico, con lo stereo acceso. A incontrare gente che conosco troppo bene e gente che non conosco affatto. A leggere giornali pieni di notizie che mi preoccupano e mi indignano e mi mettono di cattivo umore. A lavorare sforzandomi di migliorare il gusto di persone che non hanno nessuna intenzione di farselo migliorare. A mangiare in un ristorante che dovrebbe essere sofisticato e invece è solo fasullo dal sorriso dei camerieri fino alla crema chantilly del dessert (…) o invitare qualcuno o uscire per una mostra o un aperitivo o una cena in casa di amici o in un ristorante messicano o vietnamita o un concerto rock o jazz o classico o un film brillante o di stupida azione o forse una festa, o guidare per arrivare nel mezzo della notte a un albergo di mare o montagna e svegliarmi il giorno dopo in uno scenario diverso tanto per rinfrescarmi la vista e i polmoni».



CHIARA



“Stare schiscio” e “guatare” : A. De Carlo docet
Mentre leggevo mi sono imbattuta prima in stare “schiscio”: ho creduto, istintivamente, che si trattasse di un refuso, un errore di stampa, lasciandomi guidare (chissà perché poi) dall’intuizione che essendomi procurata il libro, edizione italiana, in una piccola biblioteca di quartiere qui in Svezia, dovesse “ammettere” degli errori..Mah!Pregiudizi da principiante “fuori sede”…
Accantonata l’ipotesi,ma senza aver sciolto l’enigma (avete presente quando comunque comprendete il senso di una frase e non approfondite, subito, i dubbi lessicali?) mi sono imbattuta nel secondo termine: “guatare”..ok, ora di dubbi lessicali erano diventi due e così, Wikizionario alla mano, leggo:
-“stare schiscio”, termine dialettale milanese per “stare al proprio posto” ma anche per “stare zitto”, “tranquillo”, insomma.
-“guatare”, antica forma di “guardare”, piuttosto “osservare, scrutare con attenzione”.
E chi credeva mai, che De Carlo potesse insegnarmi qualcosa di nuovo! E con quanta flessibilità gergale, poi: dal gergale all’arcaico.
Purtroppo le sorprese si esuriscono, qui, temo.
Direi, infatti, che il titolo vale bene il resto del libro: ARCODAMORE.
Un titolo ammiccante, di femminei gusti e sensuali sensazioni, curvilineo malizioso. Come pure il resto del libro, sospeso in questa idea d’ammiccamento ineluttabile e infinito: di un uomo, Leo Cernitoli, un fotografo che non riesce ad essere sino in fondo né “fotografo”, prediligendo solo oggetti per scrollarsi dalla responsabilità di fotografare volti, persone, anime, ma neppure “uomo”, con un matrimonio fallito, due bambini-pacchi postali da restituire al mittente, e uno studio non-appartamento. E una donna, Manuela Duini, una musicista d’arpa, intrappolata dalla sua stessa eccellenza sia nell’espressione musicale che nella disastrosa disarmonia della sua esistenza (né donna, né figlia, né madre).
Due esistenze “ammiccate”, accennate, sospese, che non possono che incontrarsi in un gioco, dunque, “d’ammiccamenti”: l’incontro casuale, il gioco delle parti (lui, lei, il cugino di lui innamorato invano di lei), la loro passione reciproca travolgente e fulminea, la gelosia altrettanto reciproca travolgente e morbosa, fino al rovesciamento delle parti : si amano, poi si odiano. Ecco l’arco, allora, questa curva d’amore che cresce, tocca il so apice , ed ineluttabilmente è destinata al basso, ancora, ma in un punto diverso da quello d’origine.
Proprio questo punto è il nodo della questione: che significhi la fine di un amore, oppure, semplicemente, l’arrendevole constatazione di una nuova “fase d’amore”, da accettare, consolandosi, d’un sentimento che non ha più il vigore e la pressante passione dell’inizio, quella spinta verso l’alto, ma che può essere duraturo e stabile, pur nella sua monotonia.
Entrambi, sia Leo che il cugino, scelgono di sfuggire dalla monotonia e di vivere un nuovo “arcodamore”, rappresentando quella categoria di quarantenni inconcludenti e annoiati dalla vita familiare, con la segreteria piena di contatti ma che la sera gironzolano in cerca di disco-bar dove accoppiare la propria solitudine e appagare la loro voglia di trasgressione e novità:

“Leo, porca miseria, ti rendi conto di quanto ci rinchiudiamo fuori dalla vita, per comodità e per abitudine e per semplice mancanza di occasioni? Di come ci barrichiamo in un angolo, e ci sembra anche di stare bene?..E intanto fuori c’è la vita…”

E’ così che Leo incontra la musicista Manuela Duini, grazie al cugino che ha deciso di “smettere di fare il guardone e buttarsi nelle cose”, e da subito trova nell’esuberanza della sua arpa quella diversità che attrae, cattura, così come pure la morbidezza delle sue forme, la linea curva della sua pancia “vera” e morbida “d’amore”, che , tuttavia, nascondono la durezza e la spigolosità del suo passato.  Infatti, mentre  Leo, dopo il matrimonio, decide di passare di storia in storia senza impegno, come per il suo studio divenuto un appartamento, disimpegnato, con un pratico letto a ribalta da richiudere alla fine di ogni storia, alle spalle di ogni nuova donna:
“…era un retroterra di pensieri non pensati, che spingeva in avanti le mie sensazioni tattili e visive e le caricava per contrasto, mi incoraggiava ancora verso i miei stessi gesti”

Manuela si lascia trasportare dalla sua infanzia tra un padre inetto ma celebre, e un fratello prodigio ma cattivo, musicisti entrambi, verso l’analisi e la conseguente catarsi fatta di storie con uomini forti ma dalla dubbia morale. Ed è proprio questo senso di amoralità, di errore e di malcelati misfatti, ad insinuarsi nella loro storia d’amore “folle”, intervallandone l’arco, accentuandone la tensione fino all’inevitabile curvatura in discesa…rapida e folle, di gelosia.
La meschinità, la noia di una Milano finta per bene, fa da sfondo all’inconcludenza delle esistenze dei due protagonisti che, infatti, vivono le loro fasi “d’acuto”, nella partitura polifonica della loro relazione, a Montecarlo e poi a Ferrara e in un casale in Toscana, fuori, lontani, dalla città in cui vivono.
Anche l’episodio di Montecarlo, legato ad Antonella, una delle “altre”, nello specifico, la donna che Leo frequenta prima di rimanere folgorato da Manuela Duini, resta come accennato, sospeso: ovvero, Leo prende una decisione, sceglie Manuela, ma quello che fa porta inevitabili conseguenze anche nella vita (e nell’episodio) di Antonella: dunque? Questa sospensione del racconto vuole forse sottolineare la drasticità della scelta di Leo? Lascia comunque un senso d’incompiutezza nella narrazione, un vicolo cieco in chi legge, costretto a cambiare strada…
Come pure l’essere fotografo, del protagonista, è un aspetto che potrebbe essere sviluppato in molti modi, tornare utile all’introspezione psicologica dei protagonisti, molto più di quanto risulti nel libro.
Idem dicasi della storia di Mimmo Cerino, questo grasso lercio “salvatore di anime”, direttore di una casa di recupero per tossicodipendenti, in realtà losco trafficatore e infame violento, con cui Manuela ha una relazione lunga che farà andare di matto Leo (il contrasto tra il candore del corpo di Manuela, alla luce lunare, e l’oscura ombra del suo passato con un disonesto amorale), e che alla fine viene trovato impiccato proprio da Leo, proprio dopo che alcuni tipi (chi?) hanno devastato il suo appartamento e (forse?) anche quello di Manuela (in cerca di cosa?)…Inconcluso.
Così come la storia tra Leo e Manuela. Idem, appunto.
Sarà che non amo molto i finali aperti. E neppure le ripetizioni. Tuttavia conservo un buon ricordo di “Due di due”, sempre di De Carlo, sebbene avrò avuto appena vent’anni, all’epoca.